Intervista a Romano Luperini a cura di Maria Borio
Romano Luperini è uno dei maestri della critica letteraria italiana. Docente di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, è anche un intellettuale impegnato civilmente e politicamente. Lo abbiamo intervistato.
Come ha conciliato il professore e l’intellettuale?
Come professore, ho cercato di mantenermi mentalmente libero. Non ho mai accettato cariche istituzionali troppo impegnative, e ho sempre anteposto i rapporti diretti, culturali e politici, con studenti e colleghi a quelli determinati dalle dinamiche della corporazione di cui faccio parte. Nei miei corsi ho cercato di definire il senso di libri e di autori in rapporto al senso della vita e ai compiti che esso comporta. Insomma ho cercato di tenermi alla larga dall’accademismo e anche dagli eccessi dello specialismo. Nel bilanciare i due aspetti penso di aver dato forse la preferenza all’intellettuale o, se si preferisce, alla funzione dell’intellettuale piuttosto che al suo ruolo all’interno del meccanismo istituzionale.
Quali differenze vede fra l’università degli anni settanta, quando ha cominciato a insegnarvi, e quella attuale?
Posso parlare della Facoltà di Lettere e Filosofia di Siena, dove ho insegnato tutta la vita, se si eccettuano varie esperienze all’estero, negli USA e soprattutto in Canada, all’University of Toronto. Quando ho cominciato, agli inizi degli anni settanta, la facoltà era nata da poco e risentiva fortemente del clima del Sessantotto. Di fatto le cariche erano assunte a rotazione, non esisteva quasi traccia di autorità e potere accademici, tutto si svolgeva in modi democratici. Una prima svolta si è avuta negli anni ottanta, quando per la prima volta ho assistito a vere e proprie competizioni per diventare preside di facoltà. Nell’ultimo ventennio, da un lato la facoltà conservava elevati standard professionali, dall’altro si diffondeva il clientelismo, l’apparato burocratico veniva gonfiato enormemente, crescevano i debiti, sino alla catastrofe attuale dell’intera Università di Siena. Contemporaneamente il passaggio al 3+2 e al sistema dei crediti, realizzato a Siena con particolare prontezza e singolare durezza, si è risolto in un moltiplicarsi confuso di moduli e di corsi di laurea, con un peggioramento complessivo della qualità dell’insegnamento. Il ritorno a corsi più lunghi di 72 ore ha un poco raddrizzato la situazione nel triennio, mentre nel biennio i moduli di 36 ore continuano a imperversare con conseguenze tutt’altro che positive. Se non si dà una frequentazione nel tempo fra professore e allievi e se non si permette allo studente di stare su libri impegnativi in continuazione per diversi mesi e non solo per poche settimane, è ovvio che l’insegnamento ne risenta. Se si aggiunge poi l’incredibile burocratizzazione del ruolo di docente, sempre di più sottoposto a controlli di tipo quantitativo invece che qualitativo e sempre di più indotto a esercitare un ruolo impiegatizio ed esclusivamente didattico in senso pigramente ripetitivo, si può capire in quale spirale siamo caduti.
Lei si è occupato molto anche di problemi di didattica della letteratura nelle scuole medie superiori, è stato autore di uno dei manuali di letteratura più diffusi nei licei e ha scritto anni fa un libro dal titolo significativo, “Insegnare la letteratura oggi”. Che ne pensa della situazione degli insegnanti umanisti e dello stato dell’insegnamento della letteratura nelle scuole medie superiori?
I professori di italiano nei licei, salvo poche eccezioni, vivono un periodo di profonda frustrazione. Anche per loro si è verificato un processo di burocratizzazione impiegatizia e di brutale quantificazione nella valutazione dei risultati dell’insegnamento. Nel contempo niente si fa per il loro aggiornamento culturale, lasciato alle iniziative dei singoli docenti, peraltro con sempre minor tempo a disposizione per questo aspetto, pur molto rilevante, della loro professionalità. Inoltre si è fatto sentire il disprezzo ampiamente diffuso per le discipline umanistiche, per il libro e per la lettura, in un momento in cui sembrano contare solo l’economia e la tecnologia. Gli studenti avvertono il testo letterario come estraneo, e scritto in una lingua estranea e incomprensibile. Tutto ciò in una situazione di crescente degrado: aumentano gli studenti per classe, diversi fra loro sono stranieri e richiedono tempo e attenzione particolari, ma intanto diminuiscono di numero gli insegnanti e il canone della letteratura si è dilatato sino a comprendere ben 26 autori. In questa situazione le disposizioni della Gelmini si limitano ad alcuni aggiustamenti tecnici sul programma di letteratura (anticipazione al biennio dalle origini sino allo stilnovismo, spostamento di Leopardi all’ultimo anno) quando bisognerebbe lavorare con coraggio a un nuovo paradigma didattico, che punti sui “grandi libri”, rinunci a uno studio esclusivamente cronologico dei movimenti e degli autori, privilegi l’approccio induttivo su quello deduttivo ecc.
E’ sempre più raro incontrare sulle cattedre della università italiana figure di scrittori e di poeti. Come interpreta questo fenomeno e il distacco fra autori e studiosi di letteratura?
Ho cominciato a insegnare a Siena con Fortini e sono stato amico di Sanguineti. Entrambi sono stati notevolissimi poeti e ottimi docenti. E tutti ricordano Ungaretti. Oggi i casi di questo tipo sono molto più rari. Il fatto è che il professore universitario di letteratura sta diventando uno specialista in filologia: cessa di essere un critico letterario e un interprete di testi e diventa un professionista che applica metodi di ricerca oggettivi e “scientifici”. Il senso di un’operazione letteraria non viene più posto al centro dell’insegnamento, e quest’ultimo si tecnicizza all’estremo. Questa è anche una risposta alla crisi dell’intellettuale: avendo perso una funzione complessiva, si cerca di riqualificarne la figura secondo la tendenza dei tempi e cioè in direzione tecnico-scientifica. La carriera di un professore di letteratura italiana e anche di letteratura italiana contemporanea può, dunque, di fatto quasi ignorare la interpretazione dei testi e ridursi alla mansione di tenerli in ri-uso sul piano strettamente filologico (edizione critica, accertamento delle varianti, erudizione specialistica ecc.).
Che giudizio dà della letteratura italiana più recente, del ruolo dei premi letterari e dell’editoria?
Il periodo del postmodernismo, nell’ultimo ventennio del Novecento, non è stato, soprattutto per la narrativa, di alto livello. Alla stagione di Calvino, Volponi, Pasolini, Sciascia, Morante è seguita quella di Eco, Tondelli, Tabucchi, autori interessanti e talora notevoli (soprattutto Tondelli e un certo Tabucchi), ma privi dell’impatto dei maggiori autori della stagione precedente. Anche in poesia nessuno dei nuovi autori ha raggiunto l’autorità di Zanzotto, Luzi, Sanguineti, Sereni, Caproni, Fortini. Qualcosa di nuovo sta succedendo negli ultimi anni, col tramonto del postmodernismo. Dopo Gomorra si assiste a un “ritorno alla realtà” (come si dice in linguaggio giornalistico) e a tematiche civili soprattutto nella generazione degli scrittori più giovani (ma anche fra gli anziani qualcosa di nuovo si vede, penso a Balestrini e a Siti). Il guaio è che la narrativa è fortemente condizionata dalla politica miope dell’industria culturale, che ormai punta solo al successo economico immediato e mira a un profitto da raggiungersi non più sulla massa delle pubblicazioni, ma addendo per addendo, libro per libro. L’industria insomma immette sul mercato troppa merce avariata, inquinandolo alle radici. Si salva la poesia, perché non fa mercato. L’Italia è un paese dove tutti scrivono poesie, ma nessuno le legge e le compra. I libri di poesia sono solo sporadici fiori all’occhiello delle case editrici. Ciò garantisce alla poesia una nicchia, molto discreta e appartata, di sopravvivenza. Quanto ai premi letterari, sono troppo subordinati alla industria culturale per poter costituire una valida alternativa.
Quale rapporto vede fra mondo del lavoro e università? A quale sbocco professionale possono aspirare i neolaureati o coloro che acquisiscono il titolo di dottorato in una università italiana?
Nel mio studio all’università ho appeso questa scritta evangelica: “Quaerite primum regnum dei, coetera supervenient” (cercate per prima cosa il Regno di Dio, il resto vi sarà dato per soprammercato). Non so più, da qualche anno, se davvero “coetera supervenient”. L’università italiana è in grado di preparare ottimamente i propri dottorandi ma, dopo aver speso tanti soldi nella loro formazione, non è in grado di assicurare loro un lavoro e finisce anzi per regalarli, già formati, a paesi stranieri. Una follia anzitutto economica. Negli ultimi anni fra i neoaddottorati della mia Scuola di dottorato solo due hanno trovato un impiego in strutture universitarie, ma non in Italia: uno a Malta e un altro, addirittura, a Seul, in Corea. Gli altri fanno lavori saltuari e precari o, tutt’al più, qualche supplenza alle scuole medie inferiori (ma occorreva un dottorato per simile sbocco?). Un disastro. Questo dei giovani senza lavoro è il vero disastro della università e della società italiana di questi anni.
Dagli ideali alle marchette, questa la parabola della Seconda Repubblica. Che fare?
Si parla tanto di crisi dell’economia. Ma la crisi morale e culturale non è meno grave e profonda. Il degrado in questo campo è ormai intollerabile. La decadenza della ricerca italiana, la mancanza di finanziamenti in questo settore, il collasso della scuola pubblica e della università italiana sono sotto gli occhi di tutti. Come il nostro paese, nel giro di un ventennio, sia potuto scendere così in basso andrebbe prima o poi spiegato. Da noi il peggio, compreso il razzismo, ha attecchito con una velocità sorprendente. C’è, io credo, anche una questione, diciamo così, di antropologia culturale. Fra l’Italia di Mussolini e quella di Berlusconi c’è una continuità non tanto strettamente politica, quanto iscritta nella storia del costume, della mentalità e dei comportamenti (come già li descriveva Leopardi due secoli fa). Per ripartire, io credo che necessario farlo dalle basi, e dunque operando sulla scuola, sulla università e sulla televisione, vale a dire sulle principali agenzie del sistema educativo e formativo. Solo una grande riforma di questi settori, e un risoluto investimento nella educazione pubblica, può raddrizzare una situazione ormai quasi irrecuperabile.
Se dovesse scrivere un romanzo che cosa vorrebbe raccontare?
Il romanzo italiano si è andato sempre più “privatizzando”. Non era così all’epoca di Le mosche del capitale o di Petrolio o di La giornata di uno scrutatore o di Il giorno della civetta e Todo modo. Poi si è diffuso il romanzo storico postmodernista, in cui la storia era più scenario e fondale che tessuto sociale e politico connettivo, infine il romanzo dei cannibali, tutto sesso, droga e crimine, e il giallo di evasione. Credo che occorrerebbe tornare a incrociare pubblico e privato, dimensione politica e storia esistenziale. Nel romanzo statunitense questa soluzione appare naturale e persino ovvia, e così anche nei romanzi di molti paesi del cosiddetto terzo mondo. Perché non dovrebbe accadere anche in Italia? Perché in Italia gli autori devono continuare a contemplarsi l’ombelico, a tenersi fuori dalle grandi contraddizioni della nostra epoca? Il cinema ci sta provando, se fossi uno scrittore ci proverei.
Nel 2012 lei terrà lezioni in Canada e negli Stati Uniti. Che cosa significa per lei insegnare all’estero? Come si trova in un sistema culturale e universitario non italiano?
Non ho mai avvertito un divario o una inadeguatezza della cultura italiana umanistica all’estero. Mi sono sempre sentito perfettamente a mio agio. L’alta cultura probabilmente non ha frontiere. E comunque la cultura italiana non è stata inferiore, in campo umanistico (quello a cui appartengo; non so in altri settori), a quella degli altri paesi occidentali, anche i più sviluppati. La situazione sta in parte cambiando in questi ultimissimi anni, a causa della crisi economica, culturale e morale del nostro paese. Accade che i nostri neoaddottorati intasino di richieste di lavoro le università straniere; che la mancanza di finanziamenti renda sempre più difficile invitare gli studiosi stranieri nel nostro paese e rendere possibili interscambi culturali; che la fama di Berlusconi ci perseguiti ovunque andiamo e ricada sotto forma di giudizio negativo sulla intera società e cultura italiana. E tuttavia, nonostante queste difficoltà, non credo che avrò problemi particolari. Anzi, penso che, come le altre volte, trarrò giovamento soprattutto in campi in Italia ancora poco e non sempre bene frequentati, come la teoria della letteratura e le letterature comparate. Inoltre continuerò a stupirmi di un fatto che mi ha sempre colpito in Nordamerica: Gramsci e il marxismo vi sono sempre stati praticati e tenuti nella loro dovuta considerazione, mentre in Italia professarne lo studio viene ritenuto, da un quarto di secolo e oltre, un motivo di vergogna e di disdoro. Si vede, anche da questo minimo rilievo, come in Italia abbia sempre agito lo spirito della colonia o della provincia, che induce a essere più realisti del re e più zelanti dei metropolitani nel seguire le mode. Ma questa considerazione ci indurrebbe a tornare al discorso della antropologia culturale, della mentalità e del costume del nostro paese…
(10 gennaio 2012)
martedì 10 gennaio 2012
“Il ventennio berlusconiano ha ucciso la cultura”
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